Il fallimento dei cinque quesiti referendari non è un semplice fatto politico. È una ferita aperta alla democrazia partecipativa. E se a premere con forza su quella ferita sono le massime cariche dello Stato, allora non possiamo più girarci dall’altra parte. Non possiamo più fingere che tutto vada bene. Non possiamo più derubricare l’astensionismo a un semplice dato statistico.
Il Presidente del Consiglio che annuncia pubblicamente che andrà al seggio ma non ritirerà le schede. Il Presidente del Senato che dichiara da settimane di non voler votare. È lecito? Sì. È legittimo? Sì. Ma è giusto? No. Perché la giustizia non è solo legalità, è anche esempio. E l’esempio pesa. Soprattutto quando arriva da chi rappresenta l’unità del Paese o guida una delle più alte istituzioni della Repubblica.
Dall’altro lato, una Sinistra che ha appoggiato il referendum per regolare i conti col proprio passato, come se fosse un’appendice del Jobs Act renziano, un modo per redimersi davanti a se stessa. Ma le intenzioni non bastano. Perché se non c’è chiarezza, se non c’è coinvolgimento reale del popolo, se non si educa al voto e alla complessità dei quesiti, allora tutto si sgonfia. Come è successo.
E allora il problema è il quorum? Sì, anche. Quella soglia della metà più uno degli aventi diritto è ormai una montagna invalicabile. Un meccanismo pensato in un’altra Italia, dove il senso civico si trasmetteva come un’eredità. Oggi invece serve un ripensamento: perché non calcolare il quorum in base ai votanti delle ultime elezioni politiche? Sarebbe un sistema più equo, più aderente alla realtà, che renderebbe la partita contendibile. E magari restituirebbe dignità a uno strumento che oggi muore sotto l’indifferenza generale.
Ma non è solo il quorum a soffocare il referendum. Anche il numero delle firme necessarie per presentarlo – oggi 500.000 – rischia di essere un ostacolo troppo basso o troppo alto, a seconda dell’uso che se ne fa. Troppo basso se diventa solo un’arma nelle mani dei partiti per fare battaglie mediatiche. Troppo alto se si vuole davvero rappresentare la volontà di un popolo.
E poi, diciamocelo, in un’Italia che legge sempre meno, dove la complessità spaventa, dove i temi vengono manipolati a colpi di slogan, i referendum sono diventati un labirinto incomprensibile. Un esercizio civico che richiede studio, pazienza, attenzione. Tutte cose che oggi sembrano in via d’estinzione.
Allora forse è il caso di chiederci davvero: vogliamo salvare il referendum o vogliamo continuare a farlo morire in silenzio? Perché se la democrazia è partecipazione, oggi siamo al minimo storico. E non serve più solo una riforma. Serve una rivoluzione culturale.
Una rivoluzione dove il voto torni a essere non solo un diritto, ma un dovere sentito. Dove andare al seggio non sia un fastidio da schivare, ma un gesto che racconta chi siamo.
Davide Beltrano
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