La domanda che oggi aleggia nella politica calabrese non è un capriccio analitico, né una sterile provocazione: dov’è finita la sinistra che un tempo pulsava, che generava consenso, che sapeva interpretare bisogni, sogni e paure di una terra complessa? Dov’è finita quella forza che, solo pochi anni fa, aveva portato Mario Oliverio a governare la Regione Calabria dopo la stagione di Giuseppe Scopelliti? La sinistra che nel 2014 sembrava poter riaccendere una tradizione storica, sociale e culturale, oggi appare svuotata, smarrita, quasi dissolta sotto il peso dei suoi stessi fallimenti.
Non è un mistero, anzi è ormai percezione comune, che la sinistra calabrese abbia perso compattezza, mordente, identità. L’esito delle ultime elezioni regionali non è solo una sconfitta numerica, ma il simbolo di un crollo politico e narrativo. Pasquale Tridico, indicato come il possibile punto di ripartenza, è diventato invece la rappresentazione plastica di una leadership fragile, logorata dalle polemiche, prigioniera di un tormentone - “Resta. Torna. Crediamoci.” che lo ha accompagnato più della sua proposta politica. La sua campagna elettorale, scandita da tensioni interne e una comunicazione incerta, si è schiantata contro un Roberto Occhiuto capace non solo di consolidare un potere già forte, ma di parlare con un linguaggio determinato a un elettorato tradizionalmente refrattario.
Occhiuto ha vinto sui social, ha vinto sugli annunci d’impatto, ha vinto sull’immagine di concretezza. Ha saputo intercettare studenti e giovani parlando di “reddito di merito”, ha costruito una narrazione semplice ma efficace, ha dato l’idea di un governo dinamico, persino amichevole. Tridico, al contrario, ha perso su ogni terreno: visione, linguaggio, strategia, presenza. E soprattutto è venuto meno al suo stesso slogan, scegliendo Bruxelles e il suo calore istituzionale invece della lotta, aspra e piena di spine, che lo attendeva in Calabria. Una scelta che ha rotto il fragile patto con quei cittadini che, pur dubitando, gli avevano accordato una speranza.
Questo fallimento individuale si innesta però in un fallimento collettivo: quello di una sinistra regionale che da anni non fa autocritica, non elabora nuove classi dirigenti, non riesce a produrre parole che parlino davvero alla gente.
La crisi calabrese è figlia anche della crisi nazionale, con un Partito Democratico guidato da Elly Schlein che fatica a imprimersi, a essere riconosciuto come alternativa solida, e di un universo di sigle progressiste che si muove come una costellazione slegata, spesso autoreferenziale.
In Calabria questa frammentazione diventa smarrimento: non c’è una figura autorevole, non c’è un progetto politico, non c’è una visione. E ciò che resta è una nostalgia che guarda ai grandi del passato — a partire da Giacomo Mancini — come se il loro ricordo potesse ancora guidare un presente che però è cambiato radicalmente.
Il paradosso è che proprio questa debolezza a sinistra rafforza una destra che, pur con le sue tensioni interne e i suoi malumori sulle nomine di potere, appare compatta, determinata, costruita intorno a un leader carismatico. Una destra che, nonostante le traversie giudiziarie e i problemi strutturali della regione, riesce a comunicare l’idea di un percorso, magari lento e imperfetto, ma pur sempre un percorso. E in una Calabria stanca, sfiduciata, ferita, anche un piccolo passo avanti può sembrare un balzo verso la speranza.
La sinistra, invece, resta immobile. Prigioniera di logiche interne, divisioni storiche, personalismi, errori di comunicazione e incapacità di leggere la società. È come se avesse perso il legame con quella parte di Calabria che un tempo considerava naturale riferimento. Una Calabria che ha ancora bisogno di una visione progressista, soprattutto perché i temi che dovrebbero appartenere alla sinistra — lavoro, diritti, istruzione, ambiente, legalità, welfare — sono oggi più urgenti che mai.
Il punto è che per rinascere non bastano i nomi, non bastano le alleanze, non bastano i simboli. Serve un lavoro profondo, culturale prima ancora che politico. Serve ricostruire un’identità collettiva, una missione, un’idea di futuro che sia realmente alternativa a quella proposta dal centrodestra. Serve coraggio, serve verità, serve una leadership nuova, giovane o meno giovane ma soprattutto credibile, capace di parlare alla gente e non ai circoli interni.
La strada che attende la sinistra calabrese è lunga, tortuosa e irta di ostacoli. Ma non è impossibile. Perché ogni crisi può diventare opportunità, se affrontata senza alibi. Oggi però la sinistra sembra ancora smarrita nel suo labirinto, mentre la destra avanza compatta, capitalizzando ogni incertezza altrui. E se un cambiamento è possibile, dipende da quanto la sinistra avrà il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere la propria debolezza, per trasformarla finalmente in forza.
Davide Beltrano