giovedì

Il peso di un’idea: oltre il “Che” icona.

 

Che Guevara non era un santo, altroché.


Era un guerrigliero, e come tale era amato e odiato.

Perché le rivoluzioni non sono mai giuste, se non quelle fatte per “la fame”. E a Cuba ce n’era, di fame.


Certo, ce n’è stata anche dopo, ma questo è un altro discorso. Ecco perché Che era oltre anche al comunismo stesso.


Come puoi chiamare, se non positivamente, uno che ha lasciato una comoda carriera da dottore per aiutare i soppressi e coloro che vivevano in dittature?


Ci si ricorda – sbagliando – solo di Cuba, eppure tanti sono i Paesi in cui l’eco della rivoluzione ha portato il Che ad essere presente.


A prescindere da ogni colore politico… come lo chiami tutto questo?


Che Guevara era scomodo anche per i comunisti stessi.

Basti pensare che tante volte, dall’Unione Sovietica, lo chiamavano “amico scomodo”.

Quella scomodità era diventata un problema perfino per il nuovo governo di Cuba.


Molti hanno un’idea semplicistica di Che Guevara: – il rivoluzionario comunista,

oppure – colui che uccideva.


Due modi sbagliati di raccontarlo.

Perché non tengono conto di tanti elementi, come la storicizzazione delle sue gesta e una sua matrice comunista che, paradossalmente, aveva davvero poco a che vedere con il comunismo cresciuto nell’Unione Sovietica. 


Per me, lui è la vera figura del comunismo.

Come Berlinguer.

Due che hanno trasformato quell’ideologia, prendendone solo la radice più pura e altruista.


Sarò per sempre dalla tua parte, Che.

In ogni luogo.

In ogni ufficio.

In ogni mio passo,

il tuo esempio sarà sempre presente.


– IlFolle


martedì

Referendum, crisi esistenziale: chi ha ucciso la partecipazione?


Il fallimento dei cinque quesiti referendari non è un semplice fatto politico. È una ferita aperta alla democrazia partecipativa. E se a premere con forza su quella ferita sono le massime cariche dello Stato, allora non possiamo più girarci dall’altra parte. Non possiamo più fingere che tutto vada bene. Non possiamo più derubricare l’astensionismo a un semplice dato statistico.

Il Presidente del Consiglio che annuncia pubblicamente che andrà al seggio ma non ritirerà le schede. Il Presidente del Senato che dichiara da settimane di non voler votare. È lecito? Sì. È legittimo? Sì. Ma è giusto? No. Perché la giustizia non è solo legalità, è anche esempio. E l’esempio pesa. Soprattutto quando arriva da chi rappresenta l’unità del Paese o guida una delle più alte istituzioni della Repubblica.

Dall’altro lato, una Sinistra che ha appoggiato il referendum per regolare i conti col proprio passato, come se fosse un’appendice del Jobs Act renziano, un modo per redimersi davanti a se stessa. Ma le intenzioni non bastano. Perché se non c’è chiarezza, se non c’è coinvolgimento reale del popolo, se non si educa al voto e alla complessità dei quesiti, allora tutto si sgonfia. Come è successo.

E allora il problema è il quorum? Sì, anche. Quella soglia della metà più uno degli aventi diritto è ormai una montagna invalicabile. Un meccanismo pensato in un’altra Italia, dove il senso civico si trasmetteva come un’eredità. Oggi invece serve un ripensamento: perché non calcolare il quorum in base ai votanti delle ultime elezioni politiche? Sarebbe un sistema più equo, più aderente alla realtà, che renderebbe la partita contendibile. E magari restituirebbe dignità a uno strumento che oggi muore sotto l’indifferenza generale.

Ma non è solo il quorum a soffocare il referendum. Anche il numero delle firme necessarie per presentarlo – oggi 500.000 – rischia di essere un ostacolo troppo basso o troppo alto, a seconda dell’uso che se ne fa. Troppo basso se diventa solo un’arma nelle mani dei partiti per fare battaglie mediatiche. Troppo alto se si vuole davvero rappresentare la volontà di un popolo.

E poi, diciamocelo, in un’Italia che legge sempre meno, dove la complessità spaventa, dove i temi vengono manipolati a colpi di slogan, i referendum sono diventati un labirinto incomprensibile. Un esercizio civico che richiede studio, pazienza, attenzione. Tutte cose che oggi sembrano in via d’estinzione.

Allora forse è il caso di chiederci davvero: vogliamo salvare il referendum o vogliamo continuare a farlo morire in silenzio? Perché se la democrazia è partecipazione, oggi siamo al minimo storico. E non serve più solo una riforma. Serve una rivoluzione culturale.

Una rivoluzione dove il voto torni a essere non solo un diritto, ma un dovere sentito. Dove andare al seggio non sia un fastidio da schivare, ma un gesto che racconta chi siamo.

Davide Beltrano

giovedì

"Desetacasa: uno showroom per immaginare, progettare e abitare con stile".


Ha aperto Desetacasa: a Luzzi un nuovo showroom per immaginare, progettare e abitare con stile.

La volontà di creare un punto di riferimento sul territorio. Uno spazio non solo espositivo ma anche di ascolto, consulenza e ispirazione. Un luogo dove sentirsi a casa e seguiti in ogni fase del progetto.

È questo lo spirito con cui nasce Desetacasa, il nuovo showroom che aprirà oggi, 3 giugno 2025, a Luzzi (CS), in Contrada Gidora – Zona Industriale, presso il centro produttivo Costruire Srl.

L’apertura si inserisce in un contesto più ampio di rilancio del territorio calabrese e dell’area industriale circostante, sempre più orientata ad accogliere nuove attività produttive e commerciali, segnando un importante segnale di fiducia nella ripresa economica locale.

Uno showroom esperienziale con soluzioni su misura: pavimenti, rivestimenti, arredo bagno, sanitari, rubinetteria, sistemi per la sicurezza domestica. Con Desetacasa, infatti, il concetto di showroom si evolve: non più solo uno spazio dove guardare, ma un luogo dove immaginare, creare e realizzare la casa che si desidera, con uno sguardo attento alla qualità e alla bellezza del vivere quotidiano.



lunedì

Rende sceglie Sandro Principe: “La storia siamo noi” . Riflessioni sul verdetto.

 


Ha vinto Sandro Principe. Ha vinto la grandezza del passato che ora diventa futuro. Un dato netto, schiacciante, forse più di quanto ci si aspettasse. Perché, diciamoci la verità: la vittoria di Principe era un pronostico facile. Un po’ più difficile preventivare una vittoria con percentuali così alte. Un po’ per la forza degli avversari. Un po’ per i dissapori interni alla sinistra che potevano magari togliere qualcosa a Sandro Principe. E invece è stato l’esatto contrario: il leader che batte il partito. Il leader che sbaraglia tutti e ritorna ad amministrare un territorio ancora con le ferite aperte.

Il dopo Manna era molto difficile da gestire. Lo era per la destra che, con Ghionna, ha comunque fatto un ottimo percorso. E lo era soprattutto per Bilotti, ingabbiato ormai nel declino totale del Partito Democratico.

Per Principe è stato più semplice. È stato il leader politico che si è battuto su più fronti per dire no alla città unica. In molti avevano paura di esporsi in quel periodo, già convinti di progetti che avrebbero portato all’unione dei tre comuni. Sandro Principe, invece, è rimasto al suo posto. Con le sue convinzioni. Le sue certezze. La sua storia. Quella storia che tanto ha sbandierato in questa tornata elettorale, quasi come un sigillo di fiducia e lealtà nei confronti della sua Rende.

E i cittadini, che negli anni passati avevano provato a cambiare rotta, hanno compreso che forse l’usato sicuro in politica non è poi così negativo. Anzi, in termini territoriali, chi meglio conosce il territorio ha forse più chance di essere compreso dai cittadini.

Non c’è niente di sbagliato in questo. Una comunità vuole sentirsi sicura. Vuole vedere le proprie istanze portate in alto, nell’attenzione di un’amministrazione. E molti cittadini, dopo anni di superficialità, hanno puntato su chi meglio sentiva questo senso di appartenenza alla loro città.

Dall’altra parte gli sconfitti, con l’amarezza più atroce per Bilotti e il Partito Democratico, completamente annientati dal valore politico e morale di un leader da loro ritenuto ormai “il passato”. Si mettono in coda agli sconfitti anche i 5 Stelle, ancora una volta con risultati fragili sul territorio rendese.

Adesso, invece, arriva la sfida più audace: fare di Rende la città dei rendesi. Quei rendesi che si sentivano derubati da un commissariamento che aveva annichilito ogni senso di appartenenza. Rendesi che ora vogliono una guida forte e, poco importa se per questioni anagrafiche Principe non rappresenta il futuro: ora, come ora, conta la storia. E la storia ha emanato il suo verdetto. “La storia siamo noi”, cantava De Gregori. E Sandro Principe, con queste elezioni, chiude da vincitore: “nessuno si senta offeso”.

Davide Beltrano

mercoledì

Ci sono incontri e incontri: da Istanbul arrivando in Siria.


Ci sono incontri e incontri. Verità e temibili ipocrisie che si confondono tra viaggi d’interesse, mascherati da missioni per la pace, per la patria, o per chissà quale altra favola diplomatica. 

Incontri che cadono nel vuoto, come quello di Istanbul, che avrebbe dovuto rappresentare un momento quasi decisivo nella guerra tra Russia e Ucraina. Ma è bastato che uno dei protagonisti saltasse il banco per svuotare di significato il summit. Putin ci ha ripensato: al suo posto invierà un consigliere. Da lì in poi, è iniziata una reazione a catena di diserzioni. Trump ha declinato qualsiasi ipotesi di partecipazione, e anche il presidente ucraino Zelensky invierà un delegato — tanto per salvare la faccia, in una presenza che rischierebbe ormai di apparire solo come un segnale di debolezza. 

Insomma, qui si dice di volere la pace… ma non troppo. O forse, non la si vuole affatto. Si tratta, sì — ma si perde tempo. Si fa melina. Si va avanti ad oltranza. Istanbul poteva rappresentare una svolta, un passo concreto verso una mediazione. Invece sarà solo l’ennesimo incontro di facciata. L’ennesima occasione persa. 

Ci sono incontri e incontri, dicevamo. E c’è anche l’altro: la decisione di Trump di incontrare il leader siriano Ahmed al-Sharaa, descritto dal presidente americano come “un ragazzo giovane e attraente. Un tipo tosto. Con un passato molto forte. Un combattente”. Poco importa se, fino a pochi mesi fa, lo stesso al-Sharaa fosse un jihadista con una taglia di dieci milioni di dollari sulla testa. I nemici che diventano amici, in un attimo. 

Il dio denaro e quello degli interessi mutano il corso del tempo, capovolgono il senso delle identità. Vale nella vita come – e soprattutto – in politica. L’opportunità di cambiare abito, dai panni del criminale a quelli, più eleganti, di un presidente. Autoproclamato, certo. Ma pur sempre a capo di una nazione strategica come la Siria. 

Trump lo sa bene: i suoi progetti finanziari, in nome della patria, vanno oltre anche la patria stessa. Oltre il male degli anni passati. Oltre le ferite. Oltre ogni morte perpetrata in nome di un dio. 

Ci sono incontri e incontri, ripetiamo. Maschere che si alternano su un palcoscenico, e che, a seconda del pubblico, diventano specchio del tempo che viviamo. E degli interessi in ballo. Da tutelare. O da conquistare.

Davide Beltrano