giovedì

Il peso di un’idea: oltre il “Che” icona.

 

Che Guevara non era un santo, altroché.


Era un guerrigliero, e come tale era amato e odiato.

Perché le rivoluzioni non sono mai giuste, se non quelle fatte per “la fame”. E a Cuba ce n’era, di fame.


Certo, ce n’è stata anche dopo, ma questo è un altro discorso. Ecco perché Che era oltre anche al comunismo stesso.


Come puoi chiamare, se non positivamente, uno che ha lasciato una comoda carriera da dottore per aiutare i soppressi e coloro che vivevano in dittature?


Ci si ricorda – sbagliando – solo di Cuba, eppure tanti sono i Paesi in cui l’eco della rivoluzione ha portato il Che ad essere presente.


A prescindere da ogni colore politico… come lo chiami tutto questo?


Che Guevara era scomodo anche per i comunisti stessi.

Basti pensare che tante volte, dall’Unione Sovietica, lo chiamavano “amico scomodo”.

Quella scomodità era diventata un problema perfino per il nuovo governo di Cuba.


Molti hanno un’idea semplicistica di Che Guevara: – il rivoluzionario comunista,

oppure – colui che uccideva.


Due modi sbagliati di raccontarlo.

Perché non tengono conto di tanti elementi, come la storicizzazione delle sue gesta e una sua matrice comunista che, paradossalmente, aveva davvero poco a che vedere con il comunismo cresciuto nell’Unione Sovietica. 


Per me, lui è la vera figura del comunismo.

Come Berlinguer.

Due che hanno trasformato quell’ideologia, prendendone solo la radice più pura e altruista.


Sarò per sempre dalla tua parte, Che.

In ogni luogo.

In ogni ufficio.

In ogni mio passo,

il tuo esempio sarà sempre presente.


– IlFolle


martedì

Referendum, crisi esistenziale: chi ha ucciso la partecipazione?


Il fallimento dei cinque quesiti referendari non è un semplice fatto politico. È una ferita aperta alla democrazia partecipativa. E se a premere con forza su quella ferita sono le massime cariche dello Stato, allora non possiamo più girarci dall’altra parte. Non possiamo più fingere che tutto vada bene. Non possiamo più derubricare l’astensionismo a un semplice dato statistico.

Il Presidente del Consiglio che annuncia pubblicamente che andrà al seggio ma non ritirerà le schede. Il Presidente del Senato che dichiara da settimane di non voler votare. È lecito? Sì. È legittimo? Sì. Ma è giusto? No. Perché la giustizia non è solo legalità, è anche esempio. E l’esempio pesa. Soprattutto quando arriva da chi rappresenta l’unità del Paese o guida una delle più alte istituzioni della Repubblica.

Dall’altro lato, una Sinistra che ha appoggiato il referendum per regolare i conti col proprio passato, come se fosse un’appendice del Jobs Act renziano, un modo per redimersi davanti a se stessa. Ma le intenzioni non bastano. Perché se non c’è chiarezza, se non c’è coinvolgimento reale del popolo, se non si educa al voto e alla complessità dei quesiti, allora tutto si sgonfia. Come è successo.

E allora il problema è il quorum? Sì, anche. Quella soglia della metà più uno degli aventi diritto è ormai una montagna invalicabile. Un meccanismo pensato in un’altra Italia, dove il senso civico si trasmetteva come un’eredità. Oggi invece serve un ripensamento: perché non calcolare il quorum in base ai votanti delle ultime elezioni politiche? Sarebbe un sistema più equo, più aderente alla realtà, che renderebbe la partita contendibile. E magari restituirebbe dignità a uno strumento che oggi muore sotto l’indifferenza generale.

Ma non è solo il quorum a soffocare il referendum. Anche il numero delle firme necessarie per presentarlo – oggi 500.000 – rischia di essere un ostacolo troppo basso o troppo alto, a seconda dell’uso che se ne fa. Troppo basso se diventa solo un’arma nelle mani dei partiti per fare battaglie mediatiche. Troppo alto se si vuole davvero rappresentare la volontà di un popolo.

E poi, diciamocelo, in un’Italia che legge sempre meno, dove la complessità spaventa, dove i temi vengono manipolati a colpi di slogan, i referendum sono diventati un labirinto incomprensibile. Un esercizio civico che richiede studio, pazienza, attenzione. Tutte cose che oggi sembrano in via d’estinzione.

Allora forse è il caso di chiederci davvero: vogliamo salvare il referendum o vogliamo continuare a farlo morire in silenzio? Perché se la democrazia è partecipazione, oggi siamo al minimo storico. E non serve più solo una riforma. Serve una rivoluzione culturale.

Una rivoluzione dove il voto torni a essere non solo un diritto, ma un dovere sentito. Dove andare al seggio non sia un fastidio da schivare, ma un gesto che racconta chi siamo.

Davide Beltrano

giovedì

"Desetacasa: uno showroom per immaginare, progettare e abitare con stile".


Ha aperto Desetacasa: a Luzzi un nuovo showroom per immaginare, progettare e abitare con stile.

La volontà di creare un punto di riferimento sul territorio. Uno spazio non solo espositivo ma anche di ascolto, consulenza e ispirazione. Un luogo dove sentirsi a casa e seguiti in ogni fase del progetto.

È questo lo spirito con cui nasce Desetacasa, il nuovo showroom che aprirà oggi, 3 giugno 2025, a Luzzi (CS), in Contrada Gidora – Zona Industriale, presso il centro produttivo Costruire Srl.

L’apertura si inserisce in un contesto più ampio di rilancio del territorio calabrese e dell’area industriale circostante, sempre più orientata ad accogliere nuove attività produttive e commerciali, segnando un importante segnale di fiducia nella ripresa economica locale.

Uno showroom esperienziale con soluzioni su misura: pavimenti, rivestimenti, arredo bagno, sanitari, rubinetteria, sistemi per la sicurezza domestica. Con Desetacasa, infatti, il concetto di showroom si evolve: non più solo uno spazio dove guardare, ma un luogo dove immaginare, creare e realizzare la casa che si desidera, con uno sguardo attento alla qualità e alla bellezza del vivere quotidiano.



lunedì

Rende sceglie Sandro Principe: “La storia siamo noi” . Riflessioni sul verdetto.

 


Ha vinto Sandro Principe. Ha vinto la grandezza del passato che ora diventa futuro. Un dato netto, schiacciante, forse più di quanto ci si aspettasse. Perché, diciamoci la verità: la vittoria di Principe era un pronostico facile. Un po’ più difficile preventivare una vittoria con percentuali così alte. Un po’ per la forza degli avversari. Un po’ per i dissapori interni alla sinistra che potevano magari togliere qualcosa a Sandro Principe. E invece è stato l’esatto contrario: il leader che batte il partito. Il leader che sbaraglia tutti e ritorna ad amministrare un territorio ancora con le ferite aperte.

Il dopo Manna era molto difficile da gestire. Lo era per la destra che, con Ghionna, ha comunque fatto un ottimo percorso. E lo era soprattutto per Bilotti, ingabbiato ormai nel declino totale del Partito Democratico.

Per Principe è stato più semplice. È stato il leader politico che si è battuto su più fronti per dire no alla città unica. In molti avevano paura di esporsi in quel periodo, già convinti di progetti che avrebbero portato all’unione dei tre comuni. Sandro Principe, invece, è rimasto al suo posto. Con le sue convinzioni. Le sue certezze. La sua storia. Quella storia che tanto ha sbandierato in questa tornata elettorale, quasi come un sigillo di fiducia e lealtà nei confronti della sua Rende.

E i cittadini, che negli anni passati avevano provato a cambiare rotta, hanno compreso che forse l’usato sicuro in politica non è poi così negativo. Anzi, in termini territoriali, chi meglio conosce il territorio ha forse più chance di essere compreso dai cittadini.

Non c’è niente di sbagliato in questo. Una comunità vuole sentirsi sicura. Vuole vedere le proprie istanze portate in alto, nell’attenzione di un’amministrazione. E molti cittadini, dopo anni di superficialità, hanno puntato su chi meglio sentiva questo senso di appartenenza alla loro città.

Dall’altra parte gli sconfitti, con l’amarezza più atroce per Bilotti e il Partito Democratico, completamente annientati dal valore politico e morale di un leader da loro ritenuto ormai “il passato”. Si mettono in coda agli sconfitti anche i 5 Stelle, ancora una volta con risultati fragili sul territorio rendese.

Adesso, invece, arriva la sfida più audace: fare di Rende la città dei rendesi. Quei rendesi che si sentivano derubati da un commissariamento che aveva annichilito ogni senso di appartenenza. Rendesi che ora vogliono una guida forte e, poco importa se per questioni anagrafiche Principe non rappresenta il futuro: ora, come ora, conta la storia. E la storia ha emanato il suo verdetto. “La storia siamo noi”, cantava De Gregori. E Sandro Principe, con queste elezioni, chiude da vincitore: “nessuno si senta offeso”.

Davide Beltrano

mercoledì

Ci sono incontri e incontri: da Istanbul arrivando in Siria.


Ci sono incontri e incontri. Verità e temibili ipocrisie che si confondono tra viaggi d’interesse, mascherati da missioni per la pace, per la patria, o per chissà quale altra favola diplomatica. 

Incontri che cadono nel vuoto, come quello di Istanbul, che avrebbe dovuto rappresentare un momento quasi decisivo nella guerra tra Russia e Ucraina. Ma è bastato che uno dei protagonisti saltasse il banco per svuotare di significato il summit. Putin ci ha ripensato: al suo posto invierà un consigliere. Da lì in poi, è iniziata una reazione a catena di diserzioni. Trump ha declinato qualsiasi ipotesi di partecipazione, e anche il presidente ucraino Zelensky invierà un delegato — tanto per salvare la faccia, in una presenza che rischierebbe ormai di apparire solo come un segnale di debolezza. 

Insomma, qui si dice di volere la pace… ma non troppo. O forse, non la si vuole affatto. Si tratta, sì — ma si perde tempo. Si fa melina. Si va avanti ad oltranza. Istanbul poteva rappresentare una svolta, un passo concreto verso una mediazione. Invece sarà solo l’ennesimo incontro di facciata. L’ennesima occasione persa. 

Ci sono incontri e incontri, dicevamo. E c’è anche l’altro: la decisione di Trump di incontrare il leader siriano Ahmed al-Sharaa, descritto dal presidente americano come “un ragazzo giovane e attraente. Un tipo tosto. Con un passato molto forte. Un combattente”. Poco importa se, fino a pochi mesi fa, lo stesso al-Sharaa fosse un jihadista con una taglia di dieci milioni di dollari sulla testa. I nemici che diventano amici, in un attimo. 

Il dio denaro e quello degli interessi mutano il corso del tempo, capovolgono il senso delle identità. Vale nella vita come – e soprattutto – in politica. L’opportunità di cambiare abito, dai panni del criminale a quelli, più eleganti, di un presidente. Autoproclamato, certo. Ma pur sempre a capo di una nazione strategica come la Siria. 

Trump lo sa bene: i suoi progetti finanziari, in nome della patria, vanno oltre anche la patria stessa. Oltre il male degli anni passati. Oltre le ferite. Oltre ogni morte perpetrata in nome di un dio. 

Ci sono incontri e incontri, ripetiamo. Maschere che si alternano su un palcoscenico, e che, a seconda del pubblico, diventano specchio del tempo che viviamo. E degli interessi in ballo. Da tutelare. O da conquistare.

Davide Beltrano 

martedì

L’intesa che vacilla sulla strada di Mosca.

 


Putin sarebbe «disponibile a un accordo per una pace permanente in Ucraina». La trattativa ruoterebbe attorno a cinque territori chiave e, all’interno del negoziato, potrebbe rientrare anche la ristrutturazione degli accordi commerciali tra Stati Uniti e Russia. Sono questi i punti emersi dall’incontro di cinque ore tra l’inviato della Casa Bianca, Steve Witkoff, e Vladimir Putin, avvenuto lo scorso 11 aprile a San Pietroburgo.

Un’apertura, questa, che però è stata subito smentita dai fatti: il nuovo attacco russo sul territorio ucraino, proprio nella domenica delle Palme, ha sancito l’ennesimo, lapalissiano elemento di questa guerra — il fallimento di ogni trattativa.

L’eco di questo disastro mediatico lo sente sul collo soprattutto Trump, che in una delle sue ultime dichiarazioni prende le distanze da tutti — ora definitivamente da Putin — tacciato alla stregua di un dittatore che ha un solo obiettivo: ricostruire l’Impero russo, anche a discapito dei territori in mano alla Nato.

Ed è proprio questo che fa più rumore: non tanto l’ennesimo attacco frontale del tycoon a Zelensky, reo di aver iniziato una guerra contro un nemico nettamente più forte, né l’attacco duro — l’ennesimo — a Biden. Sono le parole al vetriolo contro Putin a lasciare intravedere una prospettiva completamente diversa.

Non è un caso che il Presidente degli Stati Uniti abbia rimesso sul tavolo le drammatiche possibilità di una terza guerra mondiale che, a suo dire, sarebbe potuta essere evitata se fosse stato lui al comando allo scoppio della guerra russo-ucraina. Come a dire: “Ho fatto quello che potevo, ora è troppo tardi”.

Una sorta di cambio repentino di direzione che stride — e non poco — con le promesse di qualche mese fa: “Farò terminare la guerra”. E invece, anche il manto da salvatore di ogni diatriba si è sciolto contro le posizioni intransigenti dei due Paesi belligeranti, oggi più che mai ancorati alle proprie identità e, soprattutto, alle proprie ragioni.

Vacilla, in tutto questo, anche il potere di Trump, con il secondo passo indietro dopo il tentativo di exploit — poi ridimensionato — sui dazi all’intero pianeta.

Questo ci fa comprendere che le ragioni di ogni Presidente, Paese o agente dinamico chiamato in causa sono molto più forti di ogni singolo individuo. Anche di chi fa della forza delle parole, e del loro impatto dirompente, la sua più grande forma di autodifesa e attacco frontale.

Davide Beltrano


mercoledì

L’Italia dei morti sul lavoro: domani si tornerà a tacere?

 

Nicola Sicignano, 50 anni. Daniele Tafa, 22 anni. Umberto Rosito, 38 anni. Tre nomi. Tre vite spezzate. Tre lavoratori morti nelle ultime 48 ore. Morti di lavoro. O meglio, uccisi da un sistema che della sicurezza ha fatto un optional, da un Paese che si indigna solo quando il sangue macchia le prime pagine dei giornali, salvo poi dimenticare tutto nel giro di un paio di giorni.

Nicola è rimasto incastrato nel nastro trasportatore di una ditta di smaltimento rifiuti.

Daniele, a soli 22 anni, è stato trafitto da una scheggia incandescente in un’azienda di lavorazione dell’acciaio.

Umberto è stato falciato da un camion mentre faceva il suo lavoro su un’autostrada.

Tre storie diverse, stessa fine.

E domani? Domani le statistiche ci dicono che almeno altre due persone moriranno mentre si guadagnano da vivere.

Ma si sa, i numeri fanno meno rumore delle sirene delle ambulanze.

Il circo della politica si è già messo in moto: dichiarazioni, proclami, accuse reciproche.

Il governo promette nuovi provvedimenti, i sindacati gridano ai tagli e ai ritardi, l’opposizione si indigna.

Lo abbiamo già visto, lo vediamo da decenni.

Tra il 2021 e il 2024 i morti sul lavoro in Italia sono stati 4.442.

Quattro mila quattrocentoquarantadue.

Un numero che fa paura, ma che evidentemente non basta a far cambiare davvero le cose.

E mentre loro discutono, nelle fabbriche si continua a lavorare con macchinari obsoleti, nei cantieri si cade nel vuoto, sulle strade si muore asfaltati.

Perché la sicurezza costa, perché rispettare le regole rallenta la produttività, perché i controlli non sono mai abbastanza.

Perché il lavoro, in Italia, è ancora una roulette russa.

Eppure il dibattito è sempre lo stesso, vuoto e sterile.

Lo si tira fuori solo quando si aggiunge un altro nome alla lista dei caduti.

Poi passa qualche giorno, e tutto torna nel silenzio.

La verità è che nel nostro Paese si muore sul lavoro oggi come trent’anni fa.

E si muore perché si fa finta di non vedere, perché la sicurezza viene sacrificata sull’altare del profitto, perché chi dovrebbe garantire controlli e tutele preferisce chiudere un occhio.

Nicola, Daniele e Umberto non sono solo vittime.

Sono l’ennesima dimostrazione di quanto sia malato questo sistema.

E noi?

Noi ci indigniamo, scriviamo post sui social, accendiamo un dibattito… fino alla prossima tragedia.

Fino a quando?


Davide Beltrano

IlFolle 


venerdì

Intelligenza Artificiale: la Nuova Frontiera tra Paure e Opportunità.

 

L’intelligenza artificiale avanza a passi da gigante, suscitando timori e speranze. Come ogni rivoluzione tecnologica, c’è chi la vede come una minaccia allo status quo, un’entità misteriosa pronta a sconvolgere l’ordine esistente. Ma la storia ci insegna che il cambiamento è l’unica costante: mestieri un tempo fondamentali sono scomparsi, lasciando spazio a nuove professioni.


Il mondo del lavoro non è immune a questa trasformazione. La politica inizia a muoversi, cercando di legiferare per salvaguardare i lavoratori in questo nuovo contesto. Ma è fondamentale non demonizzare l’innovazione. L’IA non è un’entità autonoma; necessita di input umani, di dati, di supervisione. Questo apre la strada a nuove figure professionali, a competenze più elevate, a opportunità che ieri non esistevano.


Contrastare l’adozione dell’IA significherebbe frenare il progresso. È essenziale comprendere la potenza di queste nuove frontiere tecnologiche, consapevoli che l’uomo non sarà sostituito, ma affiancato da queste innovazioni. Si tratta di trovare un equilibrio che conduca a una società più efficiente e su misura per tutti.


L’IA può generare algoritmi complessi, ma le decisioni finali restano prerogativa dell’essere umano. Gli algoritmi rappresentano punti di partenza, strumenti che supportano l’uomo nelle sue scelte, senza sostituirlo. Riconoscere i vantaggi dell’IA in ogni ambito lavorativo è cruciale; ignorarli comporterebbe una pericolosa miopia che potrebbe precludere opportunità di sviluppo e benessere sociale.


Siamo all’alba di una nuova era, già proiettati verso curve che ci conducono al futuro. Abbracciare l’IA con equilibrio e lungimiranza ci permetterà di navigare con successo attraverso le trasformazioni, garantendo che il progresso tecnologico sia al servizio dell’umanità, preservando la dignità del lavoro e promuovendo una crescita inclusiva e sostenibile.

Davide Beltrano 

lunedì

Scalea: tornare all’ascolto per una politica vicina ai cittadini.

 

La buona politica si costruisce sul territorio, ascoltando le esigenze reali delle persone e traducendole in azioni concrete. Lo dimostra il percorso avviato attraverso il Caffè Politico, promosso dal Circolo cittadino di Italia del Meridione, un momento di confronto diretto con i cittadini che ha permesso di raccogliere bisogni, idee e proposte per costruire un programma condiviso.

L’obiettivo è superare i vecchi schemi ideologici e creare la coalizione più ampia possibile, basata su temi concreti e su un impegno serio per il futuro. È il momento di mettere in campo le migliori energie, di aprire un dialogo costruttivo e di individuare, insieme, il miglior candidato a Sindaco per rappresentare un progetto solido e credibile.

Noi di Italia del Meridione metteremo a disposizione della città di Scalea il programma che stiamo elaborando direttamente con i cittadini e le nostre risorse umane migliori per costruire una coalizione competente e competitiva con la consapevolezza di avere in Annalisa Alfano il migliore candidato a Sindaco da esprimere.

L’ascolto e il confronto sono la base di un nuovo modo di fare politica: concreto, partecipato e vicino ai cittadini.

Antonio Pappaterra 

Commissario cittadino Scalea Italia del Meridione

sabato

Trump-Zelensky: lo scontro che segna una svolta. Ma a perdere è la diplomazia.

 


Quello a cui abbiamo assistito nel confronto tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky potrebbe essere ricordato come uno dei momenti più significativi della storia recente. Un faccia a faccia duro, teso, che ha lasciato sul campo più macerie di quante ce ne fossero prima. Un confronto che ci ha detto molte cose: sulla guerra in Ucraina, sulle reali intenzioni degli Stati Uniti e sulla fragilità dell’Europa, spettatrice sempre più impotente di una crisi che rischia di travolgerla.


Trump ha affrontato Zelensky con il piglio di chi non cerca un dialogo, ma impone una linea. La sua frase, “non hai tu le carte in mano”, è emblematica: per lui, l’Ucraina è solo un tassello in una partita molto più grande, una scusa perfetta per ridefinire i rapporti tra Stati Uniti e Russia. Non c’è stata nessuna apertura alla mediazione, nessun tentativo di costruire una via d’uscita dalla guerra. C’è stato solo il ribadire, con toni quasi sprezzanti, che senza le armi americane Kiev non avrebbe avuto scampo. Un messaggio chiaro: l’unico arbitro del destino ucraino è Washington.


Ma se Trump ha giocato il ruolo del bullo di quartiere, Zelensky ha forse perso una grande occasione per farsi capire. Di fronte a un interlocutore così ostile, avrebbe dovuto provare a spostare il dibattito su un altro piano, smarcarsi dall’angolo in cui è stato spinto. Non era facile, questo è certo, ma il presidente ucraino avrebbe potuto provare a ribaltare la narrazione, a far emergere l’ingiustizia di una posizione che dipinge l’Ucraina come un semplice pedina e non come una nazione che sta lottando per la propria sopravvivenza.


In tutto questo, l’Europa è rimasta ai margini, quasi silenziosa. Un’Europa che dovrebbe essere protagonista della costruzione della pace e che invece viene dipinta, dallo stesso Trump, come l’agente del caos, incapace di garantire stabilità e sicurezza. Un’accusa pesante, ma che trova terreno fertile in una realtà in cui le leadership europee sembrano sempre più divise e in difficoltà.


Alla fine, ciò che resterà di questo incontro sarà la sensazione che il destino dell’Ucraina è ancora una volta nelle mani di altri. O che, paradossalmente, Trump potrebbe finire per essere il fautore di una pace imposta, modellata sugli interessi americani più che su quelli di Kiev. Se invece la guerra dovesse continuare, lo farà in un contesto ancora più pericoloso, con equilibri sempre più precari e con un’Europa che rischia di essere la grande perdente di questa partita.


Quello che è certo è che ieri non ha vinto nessuno. Ha perso la diplomazia, ha perso la possibilità di un dialogo reale. Ha perso la speranza che questa guerra possa finire con un accordo e non con una resa.


Davide Beltrano 

martedì

L’amore universale come miglioramento dell’intera umanità.

Oggi più che mai, l’amore universale appare come un’idea irraggiungibile, un concetto astratto confinato alla sfera del desiderio piuttosto che a quella dell’azione concreta. Spesso frainteso e ridotto a un sentimentalismo superficiale o a una forma di interesse mascherato, il vero amore universale è invece una tensione etica verso il bene, una forza che agisce senza aspettarsi nulla in cambio. Ma l’uomo è davvero in grado di raggiungere questa forma di amore? O è destinato a restare prigioniero di una concezione egoistica e condizionata dai suoi limiti filosofici e culturali? 

Platone, nel Simposio, ci suggerisce che l’amore è un percorso di ascesa: parte dal desiderio sensibile per poi elevarsi verso il Bello assoluto, un amore che non è più rivolto a un singolo oggetto, ma alla totalità dell’essere. È un invito a superare la frammentazione dell’esistenza per riconoscere un’armonia più grande, una visione che trova eco anche in Spinoza, per il quale l’amore intellettuale di Dio non è altro che la comprensione profonda dell’unità di tutte le cose. 


Tuttavia, l’essere umano è spesso incapace di abbracciare questa visione perché intrappolato in una mentalità di scambio: si ama con la speranza di essere riamati, si compie il bene attendendosi un riconoscimento, si misura ogni gesto sulla base di una presunta reciprocità. Ed è qui che l’amore universale si svuota, perde la sua purezza e si trasforma in una sottile forma di calcolo. 


Nietzsche ci insegna che per amare davvero occorre prima liberarsi dai condizionamenti culturali e morali che ci impongono cosa sia giusto provare e verso chi. Il suo amor fati, l’amore per il proprio destino, è una forma radicale di accettazione che ci invita a non dividere il mondo in ciò che merita amore e ciò che non lo merita, ma ad abbracciare tutto senza distinzione. Eppure, la società moderna sembra remare nella direzione opposta: viviamo immersi in dinamiche che premiano l’individualismo, il tornaconto, la convenienza emotiva. 


In questo contesto, l’amore universale diventa non solo difficile da praticare, ma persino da concepire. Eppure, la sua diffusione non può passare da un’imposizione né da un proselitismo forzato. L’unica via possibile è l’esempio: incarnare un amore libero da aspettative, un amore che non cerca conferme ma che esiste come puro atto di affermazione del bene. 


Simone Weil, con la sua filosofia dell’attenzione, ci mostra come il vero amore si manifesti nella capacità di vedere l’altro senza volerlo possedere o trasformare. È una lezione preziosa per il nostro tempo, in cui ogni relazione sembra essere valutata in base a ciò che può restituirci. L’amore universale non è un’utopia, ma una sfida filosofica ed esistenziale che richiede uno sforzo di consapevolezza e di liberazione interiore. 


È difficile, forse persino controintuitivo, ma non impossibile: il primo passo è cominciare a guardare il mondo senza il filtro del nostro bisogno di ricevere qualcosa in cambio.


Davide Beltrano 

“IlFolle”